Franco Pedrina

Pier Carlo Santini

Alcuni dei temi dominanti della pittura di Franco Pedrina sono stati chiaramente isolati dai commentatori che finora si sono occupati della sua opera. Così Valsecchi (1968) osserva «un organismo di segni e di colori che tendono a un autonomo dettato di immagini […] una tonalità calda e irradiante ma castigata nelle rutilante esteriori», rivelando come «gli scarti improvvisi di un’eccitazione, lo squarcio di un movimento interiore […] rompano un ordine troppo armonico, una cadenza troppo preziosa, per riportarli a un’evidenza più attuale». Qualche tempo più tardi (1971) Roberto Tassi notava che «il segno nuovo è la conquista dello spazio […] Mentre insomma prima l’opera era il racconto, quasi sillabato, di una emozione, ora è un organismo totale che coinvolge natura, emozione, forza e profondità». Infine, due anni dopo (1973) Guglielmo Gigli ribadiva che «di “racconto” […] occorre sempre parlare nei riguardi di questa natura rivisitata da Pedrina non come mente di visionario ma con l’anima di che sa ancora stupire e ritrovare legami dimenticati e suggestioni primordiali».
Per mio conto vorrei dire intanto che la pittura di Pedrina quale è oggi, in una fase che si apre proprio nel corso del 1973 e che ci consegna l’artista pienamente padrone del proprio linguaggio, appare fra le espressioni più felicemente comunicative di questi anni. Nessun diaframma intellettualistico, nessuna forzatura, nessuna ambiguità intervengono a togliere il piacere del contatto immediato con un mondo di forme che sono altrettanto disancorate da una riconoscibile morfologia, per quanto risultano evocanti e suggestive. A Roma prima, a Milano poi - con periodici ritorni alla terra d’origine - l’artista ha portato e conservato intatta , la sua vocazione “naturalistica” che si è anzi consolidata, nel mentre che maturavano esperienze e incontri particolari, già identificati dai critici, con Klee, con Boccioni e con Braque. Indenne da contaminazioni provvisorie, Pedrina ha così sviluppato una sua visione originale che si è andata in progresso distaccando da quei modelli, fino a rompere il sistema di sigle compositive e di moduli lunati stabilmente presenti nei dipinti del 1970. C’è da tener conto, in questa ultima fase, senza dubbio, della valenza di memorie secessioniste, sia per quanto attiene la qualità e la ricchezza delle forme, sia per certe peculiari inflessioni del colore, sia per la libertà con cui si compone la pagina e si discioglie il groviglio dei segni, sia infine per il modo con cui si distendono e si configurano i vuoti e gli spazi. e’ per questa via che Pedrina va riproponendoci la sua visione appassionata e profonda. Ne scaturisce una sorta di canto agreste o di favola pastorale, scritti con crescente abbandono e con straordinaria intensità di sentimento. Ad un osservare dal di fuori - momento basico ineliminabile del proprio processo creativo - l’artista accompagna e sostituisce infine un vivere insieme, un vivere dentro, quasi volesse identificarsi con le linfe, i succhi, le forze ,misteriosamente operanti nel divenire delle cose. Il suo naturalismo afigurale si carica di toni pungenti, di contrasti accesi, di squarci improvvisi. Le materie, gli spessori, le texstures sembrano voler duplicare nella inedita dimensione visiva gli effetti paralleli di natura: la vita che fragorosamente risorge in un bosco a primavera, ma anche quella che fa esplodere una gemma o inturgidire un frutto, o magari quella che si consuma e si spegne in un tronco o in una radice.
Si sa bene cosa si intenda dire quando si parla di tradizione veneta in pittura: una innata disposizione al colore che in accezioni infinite si intride di intenerimenti e di dolcezze, da Giorgine fino a Tiepolo ed oltre. Orbene, Pedrina sembra posseder questo dono, e ne dispone con felicità, con immediatezza, perfino con innocenza. Prevalgono nei suoi dipinti i toni graduati di viola; i verdi luminosi, acerbi; gli azzurri scalati fino ai grigi. E, come antitesi ed esaltazione, i toni cupi ed i bianchi. Questo colore si identifica con la struttura grafica che affiora o finisce per riaffiorare in ogni parte della scena, la quale pertanto è spesso folta di episodi, imprevedibile, avventurosa. Il ritmo appare mutevole, sincopato, con riposi e accelerazioni subitanei. Non c’è mai una misura costante, anche se i moduli restano a lungo inalterati. Sono aculei, dentelli, segmenti, frange, griglie, virgole, placche, fenditure riconducibili quasi sempre al mondo naturale, ma divenute identificazioni fantastiche come può avvenire ad esempio in Sutherland, non senza qualche propensione per il frammento che si distacca, o si va congiungendo entro un plesso creatore.
Nel panorama artistico italiano di oggi non sapremmo indicare molti pittori in grado, come lo è Pedrina, di rifondare una religione della natura in termini di autentica modernità del linguaggio. E per di più con impeti e gesti di scoperta passionalità, con impegno generoso; con coraggio, anche. Com’è sempre di chi vuole anzitutto, realizzare liberamente la propria condizione umana.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Il Fillungo, Lucca, 23 febbraio 1975)

 

 

 

 


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